Ancora da fare la storia della sua umanità
Pubblicato in: Il Popolo, anno XIII, n. 188, p. 3
Data: 10 luglio 1956
La mattina di Capodanno 1955. Già il male gli aveva attanagliato anche la voce, era ormai difficilissimo intenderlo senza la mediazione di coloro che avevano con lui consuetudine quotidiana, sopratutto di Anna. Ma improvvisamente, non so bene perché, quella mattina mi trovai solo con lui, nello studio. Seguitava a parlare, suoni smozzicati, rauchi, inarticolati. Raccolsi tutta l'attenzione di cui ero capace, e poco per volta, faticosamente, un nome, un titolo, una data, riuscivo a capire e a connettere. Voleva dirmi che aveva ascoltato alla radio la lettura di alcune pagine anticipate dal Metello di Pratolini, che in quei giorni si stava stampando e sarebbe uscito qualche settimana dopo. Voleva che avvertissi subito Pratolini d'una discordanza di date: non era possibile che nel 1887 Metello leggesse Stirner, tradotto in italiano soltanto molti anni più tardi.
Di quello che doveva essere l'ultimo nostro colloquio a due, mi resta, esattissimo, questo ricordo: che mi ferma nel cuore l'immagine della sua partecipazione appassionata al lavoro dei più giovani di lui, quell'ascoltare proteso — distratto, svagato non era mai, si sarebbero detti stati del tutto inconcepibili per lui — se mai un consiglio, un'indicazione, un rilievo potessero in qualche modo migliorare, giovare essere utili. Non tanto gli premeva infatti la soddisfatta compiacenza della memoria sempre desta, quanto l'avvertir Pratolini in tempo perché il libro uscisse senza quell'errore.
Del resto, è accaduto a me stesso infinite volte (credo che chiunque l'abbia avvicinato, giovane o giovanissimo, aspirante scrittore o scrittore già formato, possa testimoniare altrettanto): bastava gli si accennasse un timido progetto di lavoro perché subito quel progetto avesse a proprio servizio la sua formidabile esperienza, la sua memoria incredibile. S'alzava dalla poltrona, andava qua e là per le stanze della sua prodigiosa biblioteca (che non vada dispersa: credo non esista un altro esempio di raccolta compiuta dei documenti essenziali di tutte le letterature), cercando a tentoni per gli scaffali, appoggiando sui dorsi dei libri l'unico occhio che ancora appena appena vedeva. raggomitolandosi verso i piani inferiori, salendo per le scaletta, o altrimenti dando esattissime indicazioni, diciamo così, topografiche per la ricerca, così che in pochi minuti un accenno vaghissimo prendeva corpo li sul tavolo, in una bibliografia già in atto: stimolo efficiente, incoraggiamento concreto, impegno di fronte a lui e di fronte a se stessi.
E' accaduto a me, sarà certo accaduto ad altri, di dovere a lui anche certi esami di coscienza, quando, passati i mesi e gli anni, mi ritrovavo inadempiente all'impegno: e di provare, dal suo deluso rimprovero, una sorta di cocente rimorso per il tempo gettato, per il lavoro non compiuto. (Ma quale commossa esultanza, quale fanciullesca allegria gli procurava, al contrario, l'annuncio che, sì, qualcosa andava pur maturando, e l'impazienza, allora, l'affettuosa insistenza: quando? quando si legge?). Perché nessuno come lui, credo, poteva attribuirsi il diritto di giudicare dell'uso del tempo: nessuno come lui, infatti, ha reso testimonianza per un'intera vita, giorno dopo giorno, di quel che significa fedeltà artigiana al proprio mestiere, senza vacanze, senza abbandoni, senza smarrimenti.
Una fedeltà che era anche umiltà: egli si sedeva la mattina al suo tavolo di libero artigiano della penna, con un senso del compito da svolgere assolutamente analogo a quello di un qualsiasi altro lavoratore soggetto a doveri, a orari, a discipline. E quella testimonianza è diventata, prima attraverso vent'anni di cecità pressoché totale, poi attraverso quattr'anni di carcere sempre più duro in un corpo progressivamente murato (uscire dal quale per comunicare la vita intatta e ininterrotta del proprio pensiero costava un'indicibile penosa fatica), quella testimonianza è diventata, possiamo ben dirlo, una lezione di potenza spirituale che rimarrà il sigillo definitivo e incorruttibile della sua misura, grande, di uomo.
Che cosa egli abbia rappresentato per la cultura italiana, quale sia il senso e il valore della sua opera, è già, in gran parte, storia fatta: cui non molto, forse resta da aggiungere. Ma, ora ch'è morto, resta quasi tutta da fare la storia della sua umanità; la storia di un uomo che ha sempre partecipato con intensità eccezionale d'affetti alla vita degli altri uomini, dico gli uomini singoli coi quali ha avuto rapporti. Una storia da liberare del tutto dai due retorici moduli aneddotici sui quali si è creduto fin qui di poterla giocare: il modulo aspro dello stroncatore, dell'orco, del cerbero quasi disumano, e quello dolciastro dell'amico buono, pronto a soddisfare e compiacere i desideri di tutti, quasi troppo umano.
Proprio in questo senso, ai fini di stabilire i suoi connotati veri, si può fin d'ora chiaramente prevedere che quella storia resta affidata in grandissima parte alla pubblicazione intelligente dei carteggi, che dovrebbe venire intrapresa senza indugio, seguendo un piano per quanto possibile organico. Scriver lettere agli amici, faceva parte del suo costume più vivo e continuo: sempre a mano, con quella sua splendida scrittura, ampia, spaziata, chiara, senza sotterfugi, almeno fino a che la mano poté muoversi, articolarsi (quale pena riceverne dal '52 in poi, di scritte a macchina, con la sola firma, via via più incerta, non più quella, non più sua, e poi più nemmeno la firma, affidata anch'essa all'anonimo e freddo carattere meccanico).
Un facile calcolo suggerisce che in quasi sessant'anni di operosità intellettuale egli deve aver spedito parecchie decine di migliaia di lettere, a corrispondenti, umili e grandi, in Italia e in tutto il mondo. Il volume Papini settant'anni documenta in modo esatto e da lui controllato, le varie amicizie maggiori, fuori d'Italia, da Gide ad Apollinaire, da Valery a Unamuno, da James a Wells, da Bergson a Merezkorski, e in Italia, da Prezzolini a Soffici, da Giuliotti a Morselli, da Mori a Regalia, da Vailati ad Amendola, da Panzini a Ungaretti e infiniti altri). Egli amava dedicare interamente una mattina, spesso due, per settimana alla corrispondenza: anche interrompendo, talora, il lavoro in corso. E' facile immaginare, quindi, l'ampiezza e l'interesse di un epistolario, destinato, ne sono profondamente convinto, a una sorte opposta di quella toccata al Carducci: in quanto, mentre riporterà, dello scrittore, la misura più alta, più certa, più assoluta, darà un'immagine nuova, a volte addirittura inaspettata, dell'uomo.
I pensieri fanno ressa nell'animo, che sa d'avere perduto un amico fraterno e paterno, cui tante volte s'aprì sul filo d'una confidenza affettuosa, fanno ressa e già si volgono, col ritmo irresistibile della vita. Al futuro, al lavoro da compiere, non tanto per lui, quanto per noi.
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